[Ritorna INSIDE ITALY, il racconto dei miei viaggi attraverso l’Italia che incontro presentando un libro, ora: Prima dell’apocalisse. I codici della speranza].

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Il mio nuovo libro è partito da Napoli, il 29 ottobre scorso, è lì che l’ho presentato per la prima volta, al Giardino Liberato di Materdei, e forse non poteva che andare così. La prima volta che arrivai nella città partenopea, se non ricordo male, fu nell’anno 1994, provenivo da Berlino, affaticato da ventiquattr’ore di treno. Il piazzale davanti alla stazione centrale era un caos di piastrellisti che rimpiazzavano l’asfalto con blocchetti di porfido. La gente passava il tempo a guardarli all’opera: non erano abituati ad assistere a lavori in corso per abbellire la città, piantati davanti ai piastrellisti come se non credessero ai loro occhi. Quando salii su un autobus per andare al Vomero dal prof. Biagio Cillo, non sapevo proprio a che fermata avrei dovuto scendere. Feci una domanda a un passeggero al mio fianco, «Sapete dove devo scendere per andare in via Tal dei Tali?», e nel giro di pochi minuti l’intero autobus discuteva della via Tal dei Tali. Fu il mio battesimo napoletano.

E il Giardino Liberato è un poco questo, un antico monastero di clausura delle Teresiane, abbandonato e lasciato in disuso per anni, occupato nel 2009 da CasaPound, ripreso dai cittadini, antifascisti come quelli che lottarono contro i tedeschi durante le Quattro Giornate di Napoli, e ora gestito da un gruppo di associazioni. Quando arrivo con mia figlia, salgo verso la Biblioteca Magica, si chiama proprio così, mentre in una sala a fianco ha luogo un corso di yoga acrobatico, disciplina che neppure sapevo esistesse. Insomma, magie e acrobazie, belle ragazze e attivisti in un austero palazzo settecentesco dove si scorge ancora la finestrella da cui entravano i viveri su una portella girevole. La magia più grande di quel Giardino, ormai Bene Comune, sono però i friarelli, perché la Festa del friarello nel Giardino è forse quella più conosciuta del Napoletano, mi spiega Claudia Innaro, una delle colonne femminili di questo posto speciale. Coi friarelli, si mangia, ci si autofinanzia e ci si ricorda che «l’unico fascio ca ce piace è chill ‘e friariell».

A Torino, invece, è un ritorno in famiglia, giacché è in quella città che vive mia sorella Cristina, docente di sociologia della famiglia all’UniTO. Io non c’ho mai capito granché di sociologia della famiglia, so solo che a casa di mia sorella non ci passa uno che abbia lo stesso colore della pelle di un’altro. Dopo aver avuto in affidamento condiviso per anni un ragazzino del Bangladesh, ora ci sta un giovane del Congo nell’ambito di un programma di accoglienza volontaria di immigrati senzatetto. Quando poi mi trovo prima alla libreria Binaria, e poi il giorno dopo alla libreria Trebisonda, incontro vecchi amici, sempre di famiglia, chi montenegrino, chi algerino, e chi italiano come Alessandro Stillo, che però conobbi ad Alessandria d’Egitto. Uno più unico dell’altro, per le storie che portano con sè. Alessandro ideò la Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo, ed ora promuove la cultura dell’usato, interpretando nella concretezza quanto Compagno dice nel mio libro a padre Ignacio, dopo aver incontrato il regista Tarkovskij:

«Beh, che dobbiamo riabilitare il valore della parsimonia. È un valore condivisibile da milioni, grazie al quale uno varrebbe veramente uno su scala planetaria. Il modo migliore di portare il lutto».1

«È un termine che viene dal latino parcĕre, effettivamente, ovvero ‘risparmiare’, avere una giusta misura nell’uso delle cose».

«Sai quante cose cambierebbero nelle relazioni tra persone, società, tra Stati, e con la natura e le altre specie viventi?».

Il COREIS, che sta per ‘Comunità Religiosa Islamica Italiana’, l’ho invitato invece io. Li conoscevo dai tempi in cui lavoravo con la fondazione Anna Lindh per il Dialogo tra le Culture. Al tavolino dei relatori si siede il dott. Salman Abd al-Hakam Trotti, che si lancia in un’invettiva sulla giustizia sociale:

«Vengono gradualmente meno i principî, e di conseguenza le pratiche, di corretta ed equa distribuzione delle ricchezze e dei redditi, e assistiamo ad una enorme e mai vista progressiva concentrazione delle ricchezze, sia esistenti che prodotte, nelle mani di un numero estremamente ristretto di individui, famiglie o titanici fondi di investimento la cui reale proprietà e controllo è di pochissime persone. Questa idolatria del denaro e del possesso deriva, secondo una prospettiva religiosa, principalmente dalla perdita del senso sacrale della vita». E aggiunge: «Il profeta dell’Islam Muhammad (la pace di Allah sia su di lui) in molti hadíth esorta i credenti ad evitare l’attaccamento smodato alle ricchezze e a distribuirle secondo giustizia». Alla Trebisonda, invece, il blogger e saggista algerino Karim Metref, un vero terronese, ovvero abitante la Barriera di Milano, un terrone diventato torinese, a margine dell’incontro racconta di cos’è l’ospitalità e il rispetto per i religiosi tra gli arabi, e cita un aneddoto, di quando lavorava in Iraq con Terre des Hommes. Viaggiavano in macchina con un prete, e si fermarono ad un ristorante di quelli ai bordi delle strade di scorrimento veloce. Erano in una zona considerata un feudo sunnita. Il prete non voleva entrare nel ristorante, senza spiegare il perché. Alla fine cedette, e si mise a pranzare con loro. Quando arrivò il momento di pagare, e che il cassiere disse: «Voi non pagate, siete con Abuna» confidò ai compagni di viaggio: «Ora capite perché non volevo entrare? Non riesco mai a pagare il conto!».

Il regalo più grande me lo fa invece il regista teatrale Marco Alotto, offrendoci una splendida lettura di un brano del capitolo Pesci, del dialogo tra un pescatore gardesano e Jamàl. Legge anche le parti in dialetto, con un sorprendente accento trentino, e ci si sente subito in una viuzza di un borgo dell’Alto Garda:

«Quella è gente senza cuore. Invece di prendersi cura del lago, vogliono ancora toccare le rive. Se ghè qualchedŏ là de sōra che l’a fat el lac, làssilo star. Làssilo star come el padreterno el l’a fat!» grida Pio con tono invocatorio, alzandosi dalla sedia.

Il vecchio pescatore è scosso, sulle spalle ha gli anni migliori e quelli del declino, entrambi pesano in misura eguale, forse per quello accenna appena appena a zoppicare. Non ha perso il vigore dei suoi lunghi giorni in barca, ma si è riempito le tasche di amarezza, e poco crede nella lucidità degli uomini. Si sente circondato da gente che non capisce il lago e non prova passione per lui, e dalle sue labbra escono poche parole, poche e colorite: «Semo tuti bacati».

Insomma, è questo bordello di lingue e nazioni diverse quello che mia sorella qualifica come la famiglia del futuro? Per capirlo, sono tornato a Napoli. O meglio Portici, ai piedi del Vesuvio. Lì, mi aspetta il prof. Leandro Limoccia, anche lui sociologo, piuttosto atipico perché passa più tempo tra la gente che studia che in cattedra, e che mi accoglie in un bene confiscato alla camorra, a via Diaz: Villa Fernandes. Nella saletta della palazzina a fianco del corpo centrale, ci sono delle docenti, Claudia Innaro e suo marito Mario, e ci sono anche una dozzina di giovani di una scuola superiore locale, che si erano letti il libro ed avevano preparato delle domande per l’autore. «Lei pensa che…?». «Perché ha scritto questo?». «Ci racconta di Padre…?». La giornalista Simona Buonaura guida le danze con maestria. Mi sento come se avessi quarant’anni in meno, seduto con altri coetanei insieme a Socrate, dove le giuste domande sono più importanti delle risposte. Poi, Leandro ci fa vedere la palazzina, con la sua farmacia sociale, la saletta delle prove della banda di musicisti, tutti giovani strappati ad un ambiente difficile, il guardaroba con i vestiti per le grandi occasioni che si danno in prestito a chi non si può permettere di comprarli. E alla base di ogni gradino della scala interna, il nome di un morto ammazzato eccellente, vittima di mafia, e poi sulle pareti i ritratti di ragazzi ammazzati per sbaglio, come Claudio Tagliatela. Ventidue anni buttati al vento con un colpo di pistola. Sopra le sue fotografie, un dipinto alla Ligabue di una mimosa giallissima, opera di un pittore locale. E soprattutto, l’affresco di una giraffa e un motto:

«Nutriamo l’intelligenza dei bordi».

Insomma, a Portici nutrono l’intelligenza di chi sta ai bordi, dei loro giovani, che si devono inventare una buona ragione per campare, che devono imparare a chiedersi il perché di tante cose.

Qualcosa ho capito, mentre scorgo l’ombra del Vesuvio in fondo alla via, quella mattina che sarei ripartito, non tutto ma qualcosa: che la famiglia sta dove uno ritrova un senso alla propria vita, insomma dove ci sta “nuje piccerillo d’ammore”.

Gianluca Solera

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